È inutile che mi aspetti una squadra identitaria. Oggi è un’utopia. In questi mesi mi sono rassegnato ma non ho smesso di cercarne le ragioni, di analizzare attentamente il fenomeno calcio in Sardegna. Sono arrivato alla conclusione che le cause non sono esterne ai Sardi ma sono soprattutto nostre. Nel calcio di vertice, serie A e serie B non è facile costruire una squadra competitiva con elementi quasi esclusivamente nostrani. Il mio ragionamento è sempre stato molto semplice e banale: valorizzo il prodotto locale e per ciò che mi manca importo dall’esterno. Una politica essenziale ma inapplicata che si scontra con la realtà. Sono costretto a ricorrere a modi di dire inflazionati: “l’erba del vicino è sempre più verde” o “nemo è profeta in patria”.  Inflazionati ma quanto mai veri. È un problema culturale. Lo dimostra il fatto che non solo nel Cagliari, dove è più difficile essere al livello richiesto, questo si verifica. Proviamo a scendere di livello. La Torres, la passata stagione in Lega Pro. La seconda squadra nazionale sarda. Non si può certo dire che i Sardi in grado di poter giocare in terza serie non ci siano. Eppure, un solo sardo in rosa. In questo caso i motivi sono anche di carattere “imprenditoriale”. Il calcio identitario si scontra anche con altri interessi. Con vere e proprie lobby. Dirigenti e allenatori d’oltremare hanno il loro strascico proprio come i trafficanti di calciatori stranieri. Si portano dietro le loro compagnie di bandiera, squadriglie di direttori sportivi, procuratori e calciatori che si muovono insieme. Immigrazioni organizzate che occupano le società di altri territori, che non permettono la valorizzazione del prodotto locale. Eppure, logica direbbe che giocare tra la propria gente dovrebbe essere una motivazione più forte, una forma di guadagno anche per il calciatore che stando a casa non farebbe vita dispendiosa da emigrato, lontano dalla sua terra e dai suoi affetti. Ma il fenomeno non è solo delle squadre più grandi e non è extraregionale. Lo si comprende scendendo ancora più giù. Serie D, categoria interregionale. Sono poche le squadre che valorizzano i vivai del territorio di appartenenza. Ora, per questa categoria il bacino provinciale potrebbe essere sufficiente a mettere insieme una rosa di 24 calciatori di adeguato livello. Al limite, si potrebbe ricorrere per ciò che manca alle province confinanti. Sempre tenendo conto dei due princìpi base: l’appartenenza e il risparmio dei costi, abbattendo vitto, alloggio e trasporto che pesa non poco nei “rimborsi” che vengono elargiti. Ma facciamo conto che anche per il carattere interregionale vengano a mancare i calciatori con tutte le caratteristiche atte a soddisfare il fabbisogno della categoria. Scendiamo ancora: Eccellenza e Promozione. Mettiamole insieme visto che le differenze tecniche talvolta non sono così marcate. Sono cinquanta squadre. Dividendo il numero di abitanti totale della Sardegna ad  ognuno di loro basterebbe  usufruire di un bacino territoriale di 30.000 abitanti ciascuno per mettere su una squadra adeguata. Se è vero, come è vero, che proliferano le scuole calcio e i settori giovanili, un grosso centro, al massimo con i paesi confinanti dovrebbe essere in grado di mettere su una squadra. Invece scorrendo le rose di buona parte di queste squadre ci si accorge che i ragazzi locali, venuti fuori dal settore giovanile sono in bassa percentuale. Se fosse rapportata alla dispersione scolastica sarebbero dati da terzo mondo, da analfabetismo calcistico. Non si tratta solo dello scarso livello delle scuole che pur contando su istruttori “patentati” non produce risultati concreti, ma anche e soprattutto di un problema culturale. Il calciatore locale non gode della medesima fiducia, si conoscono i limiti e invece che lavorare sui “limiti” per farlo crescere, si fa arrivare un pari età circondato da un alone di esotismo, promozionato e in gran parte sconosciuto come sconosciuti sono i suoi limiti. A lui viene dato lo spazio per crescere pur sapendo che è di passaggio che non c’è un legame “territoriale”. Come arrivo a questa conclusione? Analizzando i tornei amatoriali. Quando ci si stacca dalle logiche dei “campionati ufficiali” le squadre riprendono il connotato identitario. Vengono formate da amici dello stesso territorio. Sono squadre fidelizzate che giocano insieme da anni e per anni. Molte di loro, sistemate in un contesto in cui non si scimmiottano i dirigenti, gli allenatori e i calciatori “più grandi” con logiche paraprofessionistiche e paraimprenditoriali, dimostrano che in quel territorio esistevano ed esistono le potenzialità per allestire squadre competitive, soprattutto a carattere regionale. Invece si assiste ancora oggi a dirigenti che portano gli allenatori amici o raccomandati, che a loro volta portano calciatori amici o raccomandati e via dicendo. Spostandosi da un territorio all’altro, producendo spese, soffocando la possibilità di allestire squadre che facciano gruppo, che siano radicate. È sempre più raro sentire ragazzi di categorie dilettantistiche pensare di giocare per la gloria della propria società. Pensano di più a strappare qualche mini stipendio, qualche mancia, qualche rimborso girando di qua e di là. Anche perchè vedono  che funziona così. Spese che le società potrebbero evitare. Ma cambiare la cultura, cambiare la testa della gente è più difficile di giocare al calcio. Ad Assemini, parlo del mio territorio, mi dovrò accontentare di sentirmi rappresentato con onore dalla Cooper Band, squadra amatoriale, di amici, identitaria, che da anni coglie piazzamenti significativi nei suoi tornei. Assemini come Recanati in una grande Recanati che è la Sardegna. una piccola realtà che ricalca tante realtà e la più grande realtà  sarda nel suo insieme.  In attesa che si recuperino i principi base della valorizzazione del prodotto locale. In un contesto di questo tipo è complicato parlare di calcio identitario. Mi sento quasi ridicolo a pretenderlo dal Cagliari.  L’identità è presa a calci ad ogni livello e il male è soprattutto in noi. La Sardegna è lontana. Continua a piangere e imprecare. Non riesce a vedere la propria erba verde quanto quella del vicino, coltivata e curata dai propri profeti, noi stessi che dovremmo conoscre e valorizzare la nostra terra e la nostra gente.