Vedo ciò che hanno lasciato nella mia terra. Ferraglie e veleni che si spandono dalla campagna alla laguna. Tumori, foglie gialle, pesci che galleggiano gonfi di mercurio. Conosco ciò che fanno dietro i rotoli di filo spinato. Non solo difendono, attaccano. Addestrano per uccidere. Non solo esercizio di guerra simulata. Un tempo. Senza gli americani guerra vera alla terra e alle piante, agli animali e all’uomo. Per posti da cameriere. Senza neanche pulire dopo aver gettato morte tra la spiaggia e il mare, in altopiano e in pianura. Invasioni dei nuovi barbari che vendono una nazione considerata periferia. Che ignorano un popolo che considerano gregge. Che spargono mine nei polmoni della gente che soffoca, talvolta convinta di falsa felicità. Invasioni barbariche. Spargono il sale sulla cultura e sulla storia per rendere anonimo un passato che ci distingue. Tracce che riemergono prepotenti conservate nelle membra di una madre che partorisce ricordi. Rimproveri, consigli, insegnamenti. Sardegna che fa fatica a sopravvivere. Vorrebbe urlare. Vorrebbe svegliare. Vorrebbe scuotere. Ma se anche il più diffuso dei giochi viene invaso dai barbari, allora non c’è mito che possa urlare. Non c’è vittoria. Non c’è riscatto. C’è solo un nuovo barbaro che saccheggia. Tronfio di una violenza primitiva. Nomade che non ha mai trovato casa per il suo cuore. Il più crudele e il più povero degli uomini, parassita di altri uomini. Come una zecca che non fatica ad attaccarsi a qualsiasi corpo pur di succhiare il sangue. Denaro, ricchezza, che prima o poi la natura trasforma in letame. Senza lasciare traccia.