Un voto che va letto sociologicamente invece che politicamente, che deve interpretare il pensiero della maggioranza dei Sardi. L’esito fresco fresco delle elezioni politiche italiane sono una verifica degli umori e delle prospettive sarde. Un verdetto è certo. I vecchi vassalli che finora hanno assecondato i colonizzatori della penisola sono usciti dalle urne con le ossa rotte. Hanno tentato anche stavolta di ripetere le solite tiritere, di incutere le ataviche paure di abbandono, di deriva, di confusione e anarchia. La maggior parte dei sardi non ci crede più.  Il plebiscito per le cinque stelle è una prova eloquente della posizione di rifiuto delle solite politiche italiane che si continuano a subire. Ne destra ne sinistra hanno saputo caratterizzare l’autonomia sarda, facendola diventare una vuota dichiarazione di intenti atta a ingannare gli abitanti dell’Isola. Lo dimostra il risultato interno al cartello di centro destra, dove si preferisce una contraddizione come il legame tra Lega e Partito Sardo d’Azione  a partiti come Forza Italia. Nel meno peggio in cui ci si barcamena, si è tornati a votare per indicare chi ancora non ci ha tentato. Un dato di fatto che va a braccetto con l’incertezza e la confusione. È per ora più una protesta e una ribellione che una strada tracciata con chiarezza verso una quotidianità migliore. Sui temi, la Sardegna deve ritrovare la sua compattezza, stando attenta a non affidarsi al politicante in carriera che veste certi panni solo per arrivare alla propria sistemazione. Personaggi che di solito hanno fretta di sistemarsi, prima di essere smascherati. In questo senso non saranno certo i 25 posti in parlamento a ridare la forza alla nostra isola. I posti assegnati sono in larga parte un obiettivo individuale, mire personali che non sono certo utili alla causa della Sardegna.  C’è un’Isola che è stanca e che chiede di trovare una guida, che non vuol dire un re o un imperatore. Vuol dire una direzione. Non basta un telaio appena abbozzato e un autista che spinge a pedali. Ci vuole un solido e condiviso programma, una valorizzazione delle competenze migliori. Non solo dei bravi incantatori.  E tutto sommato il bisogno sardo sembra essere ancora confuso nei modi ma chiaro negli intenti, come quello italiano. Ci si affida a volti nuovi che stanno imparando a dialogare. Che devono dialogare, come devono dimostrare ora di saper fare, perché di chi sa parlare ne abbiamo i parlamenti pieni. Si tratta di dare vita a quelle strategie economiche e fiscali a livello locale che sono state promesse. E con chi le metterà in pratica discutere diversamente e con pari dignità di cosa debba essere la caratterizzazione e la conseguente valorizzazione del nostro territorio. Senza dover rispondere signorsì, scartando chi questo lo sa fare pur di arrivare all’obiettivo posto, anche tradendo. C’è da guardarsi in faccia e riconoscersi. Aldilà delle evidenti divisioni, oggi in Sardegna la maggioranza ha detto basta alle solite botteghe politiche. Preferendo il rischio di anarchia alla certezza dell’oligarchia, del privilegio di pochi a discapito della base sociale.