Nel mio libro “Leggende Rossoblù” ambiento il contesto di base nel 2057. Dal racconto si deduce che il calcio è finito da tempo, fa parte del passato. La mia visione apocalittica nasce da una percezione che sento forte questi giorni, da un’idea. L’idea che disumanizzare lo sport per giustificare tutto con concetti industriali finisce per far mancare la ragione stessa dell’interesse che scatena i tifosi. Forse non è così. È la visione di un vecchio che è convinto di essere stato fortunato ad aver conosciuto un altro tipo di rapporto tra i calciatori e i tifosi, un diverso legame con la maglia, con l’identità che si rappresenta. Forse devo solo accettare una visione moderna che però non riesco a non comparare con il passato, trovando difficile giustificare un altro tipo di passione. Anche nel tifare “Ferrari”, una macchina più del pilota, emerge sempre il nazionalismo, l’identità, l’appartenenza. In questo caso con il costruttore, con il marchio. Forse anche il calcio va in quella direzione e si deve tifare il marchio, per quanto è vincente, per quanti successi ottiene e non perché rappresenta anche un territorio, un popolo, delle sofferenze, dei sogni da realizzare.  Forse è questo il calcio moderno, quello che tifa per il marchio, a prescindere dalla moralità dei piloti. Solo così riesco a giustificare la logica dei soldi che domina sulle bandiere. La logica che non importa quanto mi ha insultato o mi insulterà lo stipendiato di turno. La logica che non è il marchio ad attrarre, ma i soldi che riesce a procurare. Noi siamo in una posizione scomoda. Siamo, secondo la logica puramente economica, un pesce piccolo. Siamo subalterni alle gerarchie del calcio internazionale. È diventato fatalistico giustificare la cessione del pezzo migliore, non è evitabile, anche se è un tuo figlio. Vale di più il marchio che incassa i soldi. Si potrebbe capire se i tifosi partecipassero ai dividendi dei profitti, ma così non è e ancora mi sfugge qualcosa. Perché dovrei essere contento dell’incasso? Se qualcuno pensa che sia necessario per sopravvivere, si sbaglia. I soli introiti dei diritti televisivi basterebbero a sostenere il campionato di una squadra dagli obiettivi di media classifica. Non ci sarebbe la fame. Sarebbe diverso se l’incasso fosse la base per crescere: sacrifico il calciatore migliore e reinvesto in tre/quattro pedine che innalzino la media di rendimento della squadra. Talvolta non è neanche così. Ci tengo a sottolineare che i miei sono pensieri a voce alta. Pacati, senza veleno. Per paura di essere troppo coinvolto, di offendere qualcuno. Si offende qualcuno se non si riconosce il calcio uno sport? Non si riconoscono nelle squadre i valori che rappresentano l’identità, l’orgoglio, il desiderio di migliorare, di crescere, al prezzo di sudore e sacrifici? Spero non si offenda nessuno. Io rimango legato al calcio e alle bandiere. Ai piloti che sanno rappresentarmi con lo spirito della nostra terra, della squadra che gioca per me, per la quale spendo i soldi in simboli e spettacoli. Non ho mai amato i marchi, anche perché chi ama i marchi ama quelli vincenti, non quelli che sanno perdere, cadere e ricominciare. Ho amato chi non si arrende alle gerarchie, chi lotta per le pari opportunità, per stravolgere il destino già scritto dei secondi. E farò fatica ad arrivare al 2057 amando il calcio di Bonucci, di Sarri, di Higuain, di chi dice il peggio dell’altro che poi diventa il suo meglio. Farò molta fatica, anzi, soffrirò, a veder giocare Barella con una strisciata italiana, contro la squadra madre. Questione di età. Di principi antichi. Di storie leggendarie. Diverse dalle storie economiche di un’industria che senza la grande ingordigia avrebbe certamente sfamato più persone. E forse conservato e incrementato i suoi tifosi, aumentato la concorrenza e la competizione. Anche dei pesci piccoli. Di chi oggi viene sistematicamente mangiato dall’ingordo bel delfino di turno