Sono nato ad Assemini. Dove è nato e cresciuto mio padre. A dire il vero, lui da bambino ha vissuto anche a Grogastu, Macchiareddu. Allora si pascolavano ancora i buoi. Mi raccontava spesso dei suoi piedi scalzi e di un’economia povera, delle prime scarpe a 14 anni. Mi raccontava della guerra e delle case coloniali in mezzo a una campagna che si prestava solo al pascolo e all’agricoltura. E mi raccontava dello stagno, delle sue immense ricchezze, di una fossa coperta di frasche dove, in un determinato periodo dell’anno, bastava mandare giù un secchio per pescare le anguille. Sono nato quando ancora si poteva fare il bagno a Sant’Inesu, la spiaggia degli Asseminesi. Ora non esiste più, sbancata dai lavori di bonifica della ex Rumianca. Ricordo la campagna che pian piano veniva occupata. Inizialmente c’erano ancora i campi dove potevi cercare le monachelle tappate, i prataioli, dietro la Selpa. Il miraggio del progresso avanzava sempre più. Non più agricoltori e pastori sotto i proprietari terrieri. Non più braccianti e servi pastori. Ma di fatto un nuovo giogo. L’industria, uno stipendio, la certezza di un salario. Fu allora che cambiò la vita, cambiarono le abitudini, si cominciò a rinnegare quel popolo che tutti definivano in modo spregevole, pecorai. Assemini iniziò a gonfiarsi di cittadini. Dai 5.000 di allora ai 27.000 di oggi. Cemento come funghi. Ogni fungo, posti di lavoro per tutti, modernità, ricchezza, sicurezza. Si chiedeva di consegnarsi al nuovo padrone. Imprenditori lanciati sul mercato internazionale dai soldi dalla Cassa del Mezzogiorno e che impiantavano sul nostro territorio la base di una nuova vita. Gli veniva concesso di fare quel che volevano, l’importante è che portassero l’uniformata ricchezza della grande industria, che veniva accolta con la speranza di non vedere più partire i figli. Ciò che offriva il triangolo industriale del nord ce lo avevano portato a casa. Erano certezze, mica dover aspettare le piogge e il raccolto. Fu allora che consegnammo la nostra libertà. Non più importante la nostra terra ma il nostro stipendio. E chi poteva immaginare che non sarebbe stato “per sempre” come lo era stata la terra. Finito il foraggio pubblico. i padroni più cinici pian piano andarono via, lasciando le tracce, i resti, ruggine e veleni. Non erano imprenditori, solo predoni. Subentrò il terrore, la disoccupazione. Mantenere i posti di lavoro divenne l’imperativo, non si poteva più tornare indietro. Salvare i posti di lavoro ad ogni costo. Anche sovvenzionando aziende che non avevano futuro. Anche lasciando che risparmiassero sullo smaltimento dei rifiuti. Bastava poco per occultare. Un fosso e della terra sopra. Oppure lo stagno. L’importante era salvare le famiglie. Se ne salvarono sempre meno. Salve, sono rimaste una piccola parte delle tantissime di allora. Tante altre sono tornate a casa senza arte ne parte. Senza una prospettiva. Aspettando un sussidio. E la terra non c’è più. Inutile aspettare le piogge. Impossibile ipotizzare un raccolto. Dei tanti imprenditori arrivati in Sardegna molti si sono rivelati dei banditi. Finiti i soldi finito tutto. Lasciando macerie. Pochi sono rimasti a fare gli imprenditori con tenacia e per loro, immensa riconoscenza, tanto da chiudere un occhio di fronte al prezzo da pagare, una terra ormai martoriata. Libertà di gestire lo spazio intorno. Carta bianca e bende agli occhi. Certe pratiche sono diventate così consuetudine, imitata nel piccolo dalla cultura della discarica espressa anche dal singolo cittadino che dove trova butta, senza criterio. Una inciviltà che si è radicata, che affonda la sua filosofia in 40 anni di area industriale e che trova la sorella gemella nelle aree dei poligoni militari. Anche quelli posti di lavoro che giustificano l’abuso. Oggi il conto. Servito a chi è rimasto, a chi è rimasto seduto al tavolo senza scappare. Anche quando si è iniziato a cercare da mangiare. Per stare nel mercato. Per non arrendersi in un sistema italiano dove sopravvivere alla concorrenza internazionale è alle soglie dell’impossibile. C’è un costo da pagare. Ci sono voci che impongono il risparmio, altrimenti, non ci stai, ti arrendi, molli, licenzi. Ma sono 40 anni di inquinamento. Una pentola rimasta coperta. La dipendenza economica stringe d’assedio i poli industriali rimasti vivi. Ma i veleni nel frattempo hanno prodotto gli amari frutti. La morte invece della vita. Il seno concavo della nostra dea madre, scavato nella terra e non nella pietra. Non quello prosperoso delle antiche veneri mediterranee. La semina del veleno ha un raccolto fatto di malattie e di croci. Ha messo di fronte la tavola imbandita e il letto di morte. Sta dividendo la società diversamente unita nel pianto. Il posto di lavoro non è longevo quanto l’inquinamento prodotto. E ora è caccia al colpevole, all’ultimo rimasto, al meno cinico. A colui che è stato educato a una consuetudine che non poteva durare per sempre. E ci si chiede dove sta la giustizia. Soprattutto dove è stata finora. E ancora, se può essere giustizia, dopo tanta omertà