
DALLA CROCE ALLA SPERANZA
- Aprile 5, 2015
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«Questo Albero è cibo, dolce cibo, per la mia fame e una sorgente per la mia sete; è indumento per la mia nudità; le sue foglie sono alito di vita. Se temo Dio, questa è la mia protezione; se inciampo, questo è il mio bastone; questo è il premio per cui lotto, la ricompensa della mia vittoria. Questo è il sentiero diritto e stretto; questa è la scala di Giacobbe, dove gli angeli salgono e scendono, e in cima alla quale sta in piedi il Signore stesso». Sono parole scritte da San Giovanni Crisostomo sul significato della croce. Oggi, come sempre, nella storia dell’uomo, danno una speranza nel momento della sofferenza. Non parlo solo di quella calcistica, effimera, legata al dio pallone, parlo della croce che pesa sulle spalle di tanti condannati dalla routine quotidiana, dal giogo di una società che stenta a realizzare la democrazia di fatto, la giustizia oggettiva. Si regge su ipocrisie, la democrazia e la giustizia non esistono se ci sono categorie che pesano di più, che hanno più potere economico o politico, che mantengono e innalzano i loro privilegi a discapito della gran parte della società, chiamata alla costruzione di una piramide che schiaccia gli ultimi e i diseredati. Diventati sempre in maggior numero. Anche chi lavora rasenta la schiavitù. Produce un reddito che viene sottratto in tasse, che non basta per le tasse stesse. Ci vorrebbe una nuova moltiplicazione di pane e di pesci con il rischio che anche quelli possano essere confiscati per il banchetto di chi sta in alto. La croce è il nostro cibo, è il nostro quotidiano, è il nostro vestito. Non riusciamo a staccarcene per paura di perdere la protezione del sistema, per il terrore di non avere più assistenza sulla quale poggiare. Ci rimane la speranza che ci sia un fine ultimo superiore ai piaceri terreni, un paradiso per i sofferenti. Una forma di suicidio materiale nel quale proiettiamo tutte le speranze di una vita migliore, ultraterrena. Nel calcio tutto diventa più banale perché la salvezza è nelle nostre mani, anche qui, padroni permettendo. Dal cielo alla terra prende voce l’immagine di una croce che ci sprona a reagire. “Ma che ti lamenti, prendi lu bastone e tira fora li denti”. Versi apocrifi di chi santo non è stato. ” Si tu si un uomo e nun si testa pazza, ascolta beni sta sentenzia mia, ca iu ‘nchiodatu in cruci nun saria s’avissi fattu ciò ca dicu a ttia. Ca iù ‘inchiadatu in cruci nun saria! Ma che ti lamenti, prendi lu bastone e tira fora li denti”. Dalla croce alla speranza c’è comunque sempre un percorso, spirituale o materiale. Figlio della fede e della rassegnazione in vita, figlio della reazione e del sovvertimento del sistema. L’uno e l’altro, in attesa della resurrezione. Alla ricerca di una vita migliore, della salvezza eterna o quotidiana.
Antonio
Caro Vittorio, riguardo al tema che hai affrontato con la tua consueta sensibilità, il tema della sofferenza, mi piace ricordare alcuni passi del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” del Leopardi.
“Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato”.
La conclusione è ancora più tremenda: “E’ funesto a chi nasce il dì natale”.
Certo, il pessimismo del poeta di Recanati era cosmico e impenetrabile, ma non si discosta molto dalla realtà.
L’unica, seppur parziale, consolazione alle nostre pene quotidiane è che la croce è davvero democratica e non fa distinzioni tra ricchi e poveri, persone sane (sane oggi, domani chissà) e persone colpite dalla malattia, potenti e sudditi, persone di successo e chi si sente o la società fa sentire fallito. La croce visita tutti ed allora l’unica cosa che possiamo fare è o accettarla con rassegnazione, lasciandoci prima o poi schiacciare, oppure caricarcela sulle spalle per condividerla con gli altri. Forse così facendo alleggeriremo la nostra e pure quella altrui. Ma non è facile, non è per niente facile.
Cordiali saluti
Antonio